Wednesday, December 20, 2006

ZAMPONE as a POPULAR ART : a short HISTORY of ZAMPONE























Per la serie "La Storia Siamo Noi" ; or , better , come sosteneva il Grande Poèta PAOLO LIGUORI :" Storia e Geografia ? e che ce importa??... A che Ora Se Magna?", volevo segnalarvi un piacevolissimo librone che sto leggendomi in questi giorni.
Il book è stato editato 10 anni fa dalla Cassa di Risparmio di Mirandola e s'intitola: " CIVILTA' della CUCINA Nelle TERRE dei PICO e dei GONZAGA" ( by Giacomo RAVAZZINI).
Il libro è veramente interessantissimo . Trattasi di un excursus molto dettagliato all'interno delle (ricche) tradizioni culinarie della nostra area.
Visto che siamo in full Xmas Time volevo divulgare un attimo la sezione dedicata a uno dei "piatti forti" della nostra cultura gastronomica: the ZAMPONE.
Sembra , da alcune fonti (esempio" Il Secondo Grande Assedio della Mirandola") che lo zampone sia stato inventato , a Mirandola, durante il famoso assedio (inverno 1510-11) che la cittadella dei PICO subì (in quanto alleata del re di FRANCIA) da parte delle truppe pontificie di Papa GIULIO II .
Prevedendo un lungo assedio a un cuoco di corte venne un'idea: condire e salare la carne più magra dei maiali e poi riempire con questa carne gli zampetti dei suini.
Gli zampetti sarebbero poi stati cuciti e il tutto sarebbe poi stato cotto e consumato quando fosse servito durante il previsto lungo assedio.
Nel 6-700 lo zampone s'impose sempre più nelle tavole signorili mantovane e modenesi.
Nel '700, nella sua "Salameide", il poeta ferrarese FRIZZI scriveva "Col nostro cotechin come fratello / di Modena il zampetto al par cammina".
Nell'Ottocento lo zampone iniziò ad estasiare noti esponenti del mondo della cultura e della politica.
Il futuro premio Nobel Giosuè CARDUCCI "veniva a mangiare a Modena, per le feste di Natale, con uno stuolo di professori e poeti , facendo ampio uso di zampone e lambrusco".
Mazzini, esule a Londra, esaltava in una sua lettera "le carni da maiale modenesi".
E'mile ZOLA, nel 1895, si dichiarò totalmente conquistato dallo zampone: "pietanza deliziosa e divina".
Mentre nel dicembre 1867 Giuseppe GARIBALDI scriveva al salumificio Bellentani: " Ho gustato i vostri zamponi. Rinomanza meglio basata per i tempi che corrono difficilmente potrebbesi riscontrare come quella cui a giustissimo diritto gode sì squisito vostro addobbo. Di vero cuore vi ringrazia il vostro Giuseppe Garibaldi".
Una curiosità: nel 1965, ad un convegno gastronomico, Luigi Carnacina disse che aveva notizia di una ricetta tipica del periodo austro-ungarico: lo zampone con lo zabaione (????).
Gli rispose, sarcasticamente, il dott. Leonelli: " Per quante ricerche io abbia fatto , non ho trovato riscontro nell'intera area basso-modenese/mantovana, all'uso dello zabaione con lo zampone. Il richiamo al periodo austro-ungarico mi fa poi pensare che tale abbinamento sia ormai in DISUSO. ..E non sarò certo io a rimpiagerlo!!!".
Parole SANTE, dùtur! Lasciateci lo zampone con le lenticchie o il purea di patate.
I miscugli agro-dolci li lasciamo ad altri! :)
Michele
(attached: some images of zampone plus an image of our Mantova town under snow)











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Friday, December 15, 2006

The PSYCHEDELIC HISTORY of JOE BYRD & The UNITED STATES OF AMERICA




















Il 1° lp degli UNITED STATES OF AMERICA di JOE BYRD, fu uno degli esempi più straordinari di "musica totale" e "free-form" sulla scia tracciata dal GENIO ASSOLUTO Frank ZAPPA. Psichedelia, avant-garde, musica popolare, folk rock, elettronica , hard-rock , cabaret si congiungevano a formare un pastiche multiforme che aveva l'intento essenziale di mimare/parodiare la "società americana" dei late 60s;quella dello "one dimensional man", delle lotte civili, della fine dell'utopia e della "new frontier", del Vietnam, della recrudescenza dei conflitti sociali e razziali, dell'embrionale ricompattarsi di una nuova "moral majority" (che sarà poi esaltata /incarnatadalla presidenza nixoniana) e dello "escapism" hippie.
E' pertanto con piacere che pubblico questo articolo sugli USA scritto da Marcello RIZZA, collezionista ed esperto bresciano di 60s music.
Michele
Grazie al nostro amigo PASQUALE BOFFOLI http://musicbx.blogspot.com per avermelo segnalato.
(by Marcello RIZZA)
Parlare del progetto THE UNITED STATES OF AMERICA del poliedrico JOSEPH BYRD vuol dire affrontare almeno marginalmente un discorso che impegna più aspetti della cultura e della società.
Nei primi anni ’60, tra l’asse improbabile New York – Los Angeles, la prima avanguardista e sperimentale, la seconda conservatrice, si sviluppa la storia che porta alla realizzazione di questa che è una delle opere di riferimento della psychedelia americana.
The "american way of life "sarà, in quest’opera, il leit-motif e l’elemento parodiato e da decostruire. Già da anni la filosofia della Beat Generation si poneva fortemente critica alla società americana così come stava evolvendosi e Byrd, tra ambienti di quella matrice e tra le esperienze maturate negli happening del movimento “Fluxus”, confeziona una sorta di teatro/canzone che ha i connotati di una militanza cabarettistica.
Un’opera per lo più passata sotto silenzio e riscoperta solo dopo molti anni, forse perché posta al confine stilistico, dove la psychedelia si fonde con la ricerca elettronica,.
Nei primi sixties, in New York, c’è un grande fermento artistico che interessa la musica, la pittura, la letteratura, il cinema e ogni forma di arte che possa coinvolgere il panorama giovanile.
Particolarmente attivo, in questo senso, è ANDY WARHOL, iniziatore del fenomeno artistico ‘pop’ular art, che apre il proprio studio, la FACTORY, e mette a disposizione le proprie risorse a un pubblico misto di intellettuali più o meno disoccupati e artisti che si pongono in un contesto ibrido tra protesta, cultura della droga e consumismo.
E’ in questo ambito sociale in fermento che si trova ad operare Joseph Byrd, poeta e musicista compositore diplomatosi a Stanford e polistrumentista eclettico che già aveva dimostrato di saperci fare col jazz suonando il vibrafono.
Pervaso dal fuoco sacro della sperimentazione e della rappresentazione colta, infatuato del clima avanguardista e seminale di NY, inizia nella Big Apple un percorso che lo vede impegnato su più fronti. Aderisce al gruppo neodadaista “Fluxus” i cui componenti sperimentano forme artistiche musicali, poetiche e visive discoste dall’atto artistico creativo tradizionale, in nome di un’arte totale dove danza, teatro e performance si trovano coesi alla musica e alla poesia.
Nel primo happening musicale organizzato dal movimento Fluxus, Byrd compare elencato a fianco di molti artisti del periodo e soprattutto a fianco di La Monte Young, col quale terrà un primo concerto nel loft di Yoko Ono su Bank Street.
Sperimenta nella cerchia degli artisti e degli intellettuali di John Cage e studia musica elettronica alla New School diplomandosi e diventando compositore, produttore, insegnante, arrangiatore e conduttore d’orchestra. Dovendosi mantenere svolge mansione d’amanuense per il compositore Virgil Thomson, che lo avvicina alla musica tradizionale americana; questa esperienza sarà importante perché la struttura delle sue due opere musicali, "The United States Of America "e "The American Metaphisical Circus", saranno strutturate su echi, sonorità e ritornelli della cultura tradizionale approfondita proprio nel corso di questa frequentazione.
In quel periodo conosce Doroty Moskowitz, primo e fondamentale elemento per la realizzazione del progetto THE U.S.A., con la quale inizia un rapporto di collaborazione musicale e una relazione sentimentale. Già in quel periodo, nella City, Byrd si fa notare come uno dei più promettenti giovani sperimentali nell’ambito della composizione musicale.

Nel 1963, con Doroty, emigra a Los Angeles per esportare la propria esperienza acquisita in un nuovo ambito sociale culturalmente meno seminale di New York e con ancora molte delle potenzialità da esprimere nella sperimentazione artistica.
Iscritti ambedue all’U.C.L.A. (University of California at Los Angeles) seguono corsi di musica indiana, di musica ambientale, di acustica e di psicologia della musica, in un percorso circolare che apporta nuova linfa al personaggio Byrd compositore.
Con una associazione di studenti, artisti e musicisti indiani, nel 1965, organizza happening dove tutti i partecipanti sono coinvolti in dinamiche sperimentali multiformi e dove, con questi nuovi stili, si organizzano una serie di concerti/rappresentazioni musicali. Nel frattempo si crea in Byrd la consapevolezza che il suo lavoro sarà influenzato e improntato all’impegno civile e politico, comunque schierato contro la guerra nel Vietnam e la American way of life.
Nel 1966 la relazione con Doroty s’interrompe e lei torna in NY, mantenendo comunque rapporti di amicizia. Dopo circa un anno Doroty, chiamata ancora da Byrd, torna a L.A. per formare il progetto U.S.A.. Byrd interrompe ogni collaborazione con l’U.C.L.A. e si dedica a pieno titolo a comporre musica. La line-up del gruppo, consolidatasi nel tempo, è ormai così formata: Joseph Byrd, il quale compone, orchestra e suona electronic music, electric harpsichord, organ, calliope, piano; Doroty Moskowitz, lead singer, dalla voce affascinante e fredda che è la più vicina a Byrd e al suo mondo musicale; Gordon Marron, magico tessitore acustico ed elettrico delle arie melodiche e dei suoni lancinanti del suo electric violin e che aziona il ring modulator; Rand Forbes, che suona un electric bass senza tasti; Craig Woodson, electric drums, percussion, il quale spazia nel progetto in vari generi percussivi, compreso quelli tribali africani.
Nasce così il progetto The United States of America che dà anche il nome al gruppo musicale e al titolo del concept album datato 1968 per la Capitol che ne consegue. E' un progetto musicale geniale e ancora fresco e attuale, figlio della contestazione hippie, risultato di una controcultura avanguardista, debitrice dell’esperienza del seminale conterraneo Frank Zappa e, all’opposto, dell’influen
za operistica, classica e rinascimentale.
L'opera ha il fine di combinare sonorità elettroniche, radicalismo politico/musicale e teatro.
Appare da subito che il collante dell’opera è la musica tradizionale americana, qui però utilizzata come vero e proprio elemento psichedelico; i richiami strumentali all’esercito della salvezza, i tratteggi religiosi tipici vengono usati spesso riverberati e comunque agiscono da elementi burleschi e satirici tipici del cabaret, a dimostrare non solo l’espediente musicale e artistico ma soprattutto il messaggio socio-culturale di rigetto dei luoghi comuni e delle contraddizioni dell’america sixties.
Lo strumento che predomina è il violino elettrico, che in tutti i brani risulta esserne il nerbo, sia usato nella sua connotazione acida che nella forma più pulita e melodica. Le introduzioni e i finali dei brani sono musicalmente rumoristici, con pezzi bandistici che ricordano il circo, ninne nanne elettriche, trombette, organetti da fiera.
Sembra una mente aliena adusa agli sterminati spazi cosmici quella che inscena paesaggi lirici che ricordano spazi siderali ghiacciati condannati a contaminazioni liquide, a sperimentazioni elettroniche psichedeliche.
Il violino elettrico, quando è lancinante, accompagna le parti cantate “disturbando” le nenie e i cantati che richiamano al panorama musicale dei Beatles, dei Jefferson Airplane e del repertorio della casa discografica delle comuni hippie, la “Holy Ground”, soprattutto vicino alle arie dell’esperienza artistica "A to Austr".
La voce solista femminile, la splendida e particolare voce di Doroty Moskowitz, caratterizza e lega l'opera. Doroty sembra nata per cantare nella liquidità dei suoni del gruppo che confeziona un album originale, a tratti ironico, sempre colto, assolutamente emozionante. Un’opera che non stanca mai. Uno dei migliori pezzi è “Where is yesterday”, una preghiera psichedelica che ipnotizza così come il canto gregoriano cattura il credente che trascende nella dimensione spirituale. In “Cloud song” il violino si addolcisce e gli altri strumenti sono pizzicati in un genere che ricorda, pur nella sperimentazione, arie e momenti medievali o indiani.
In "Love song for the dead Che" si identifica sicuramente il brano più melodico e accessibile, con la tipica strutturazione di forma-canzone. La fisarmonica e la ritmica dal timbro tribale africano accompagnano qui una Doroty malinconica e ispirata seppur la sua voce non dissipi il senso d’inquietudine che pervade tutta l’opera.
Si eleva alto il brano finale dell'opera, "The american way of love" che, in una carrellata di espedienti psichedelici da favola che si sviluppa in tre parti, "ricostruisce" e riassume tutto l'album in una cacofonia di astrazioni oniriche pervase da motivi che riecheggiano la civiltà musicale americana e contemporaneamente ti riportano indietro nel tempo, facendo riesumare, nella melancolia, i primi momenti di "veglia" innocente nell'utero materno.
Gli ultimi incisi musical-popolari, infatti, perdono l’aspetto stridente del riverbero ed il cross-over del violino elettrico contrastante con fraseggi musicali da festa di paese, che simboleggiano la corruzione di valori che dovrebbero essere incorruttibili, a favore di una trama quieta degli ultimi echi vitali, che simboleggiano una primigenia purezza .
L’anno successivo, con una nuova line-up stavolta di più affermati, ma meno ispirati musicisti, Joseph Byrd compone e suona il suo nuovo ed ultimo progetto musicale/rappresentativo, "The American Metaphysical Circus", che pur essendo interessante e valido e con un canovaccio ricalcante il primo progetto non raggiunge comunque i livelli di originalità, di liricità e di espressione rappresentativa della precedente opera, forse anche per la mancanza della voce particolare di Doroty che viene sostituita da quella delle cantanti Victoria Blond e Susan De Lange.
Per sei anni si perdono le tracce del geniale compositore per poi ritrovarle nel disco solista “A Christmas Yet To Come” edito nel 1975 dalla Takoma, dove il compositore rivisita e riarrangia alcuni brani della tradizione natalizia.
Nel 1976, sempre per la Takoma, esce il suo altimo album “Yankee Transcendoodle” col sottotilo “Electronic Fantasies for Patriotic Synthesisers”, avente per tema il patriottismo americano.

Discografia originale albums:
· UNITED STATES OF AMERICA – Columbia CBS (1968);
· JOE BYRD AND THE FIELD HIPPIES - The American Metaphisical Circus – Columbia CBS (1969);
· JOSEPH BYRD – A Christmas Yet To Come – Takoma (1975)
· JOSEPH BYRD – Yankee Transcendoodle – Takoma (1976)








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Thursday, December 14, 2006

FALCO & BRIGITTE NIELSEN " Body Next To Body (Rock Version) / (Other Version)" 7" (Teldec rec. , 1987)


Per la serie "famose der male" ieri mi è capitato di ascoltare questa "straordinaria" perla dei late 80s, prodotta dall'italo-disco master GIORGIO MORODER.

Intendiamoci, dal punto di vista strettamente musicale trattasi di una "tavanata "pazzesca , un "kitsch-flamboyant" mix di post-disco e pseudo-rock.

Ma lo straordinario "encounter" tra il grande FALCO e la nuestra (ormai italiana (e.. interista) d'adozione) Brigittona Coscialunga, è un evento degno di assurgere , come minimo, a dignità letteraria.

Il dischetto , appena uscito, balzò direttamente nella top-20 tedesca e , addirittura!! , al n.6 in Austria.
Al che , il FALCO ,candidamente dichiarò: " Strano. Con lei non volevo andare in hit-parade. Con lei volevo solo andare a letto!"
Tra l'altro FALCO, al secolo Johann "Hansi" Hoelzel, era stato il bassista di un gruppo rock-punk chiamato DRAHDIWABERL.

But here is an extract from the lyrics:

"Body next to body, tell me pain to pleasure I wanna know if you are the one for me, / yeah Body next to body, searching for the treasure the magic in the mystery,/ yeah, yeah, yeah During later, you must leave the theatre you have to go home, / maybe your alone Do the Bang-Bang-Boogie,/ say up jump the Boogie, you say Na na na ".

Lo spessore culturale delle liriche mi pare EVIDENTE,..soprattutto se raffrontato a quello dell'attuale "responsabile della cultura" Rai Giggi Marzullo!

Purtroppo FALCO ci ha lasciati nel 1998.
lyrics extracts taken from


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Wednesday, December 13, 2006

GET AN "ESPATRIAZIONE TRASCENDENTALE" with PUPO'S "GELATO AL CIOCCOLATO" !




La prima volta che ascoltai il termine "ESPATRIAZIONE TRASCENDENTALE" fu durante una lezione di Letteratura Italiana Contemporanea tenuta all'Univ. di Bologna dal mio prof. di Lett. Ita. GUIDO GUGLIELMI (un Grande,..autore , tra gli altri, di "IRONIA E NEGAZIONE" e "La Prosa Italiana del '900: UMORISMO, METAFISICA, GROTTESCO" (Einaudi)).


L'espressione faceva riferimento al saggio "Teoria del Romanzo"("Theorie Das Romans" or "Theory Of The Novel" in eng.) di GEORG LUKACS.


Il significato era, se non rammento male che: se l'eroe dell'epos antico (ex. in Omero) rifletteva in sè una forma compiuta di esistenza , era in contatto "vitale" con la sua comunità e i suoi Dei,.aveva in sè "un'immanenza di senso" ed era da questo Senso totalmente formato; con il romanzo moderno tale "pienezza di senso "viene meno.


L'eroe (o meglio anti-eroe) del romanzo moderno non ha più il "trascendente" in sè ma vive un'esistenza cieca, oscura, il suo percorso esistenziale non è più un tracciato lineare, ma si fa tortuoso, governato dalle maligne forze di un fato oscuro, dai demoni, dall'hybris.


In short, se l'epos greco (Omero) è l'espressione formale adeguata di un mondo spirituale in cui" essere e destino, avventura e compimento, vita e essenza sono CONCETTI IDENTICI" (Lukacs); l'eroe del romanzo moderno è invece "scisso" da questa Totalità, è una "Individualità in conflitto", un mondo a sè.
A questa "espatriazione", a questa "scissione " tra Io e Mondo l'eroe del romanzo 8-900entesco può rispondere solo con una feroce, desolata ( e astratta) coscienza di questa "perdita di senso" e con una "sehnsucht" (nostalgia) per un'epoca dove vi era più "pienezza di vita" e dove quelli che Lukacs chiamava " DIE URBILDER" ( i " modelli originari") erano inscritti naturalmente nell'uomo.


Questi anni dominati dai LELE MORA, inciucisti , vippetti da 4 soldi, poltronisti d'accatto, tronisti ecc. ecc. sono quanto di più lontano dalla lukacsiana "totalità della vita" si possa immaginare OSEREI dire:)
Perciò tutti noi abbiamo bisogno di ritrovare gioiose MYTHOLOGIES che ci riportino ad una Totalità di Senso più Immediata:)
Well: Chi meglio di PUPO "Gelato Al Cioccolato" può assolvere a questa funzione teoretico-esistenziale?:)


Perciò eccovi una video- live-interpretazione della leggendaria "Gelato Al Cioccolato"(in medley con "Don't let me be misunderstood"," los Poetas Andaluces"," porompompero ") ad opera di SANDRO E GIACOBBE, straordinario duo demenzial-nazional-popolar fiorentino formato dal Raga (ahora stimato medico but too ex NO FUN e DEMENTZ) e dal mitico Fabio Fantini.
Da notare, tra il pubblico gaudente-alticcio, anche membri della folk band fiorentina BANDA BARDO'.


Michele Ballerini by " Società Per La Beatificazione Immediata di PUPO".
see the video aqui:


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Wednesday, December 06, 2006

DELICIOUS "Pop Gun" (Massive Arts , 2004)


Per la serie "The Crusaders of Pop-difendiamo il POWER POP!" ,..voilà una mia recensione piuttosto non-accomodante (oserei dire)nei confronti di una di quelle bands che certa critica IGNORANTE definisce power pop pur non avendo date bands ONESTAMENTE un accidente a che fare col power pop STORICO!
Visto che gli islamici (ma anche i papisti) si INCAZZANO quando viene fatto il nome di Dio invano,..non vedo perchè anche noi non dovremmo INCAZZARCI quando viene INOPINATAMENTE pronunciata la SACRA Parola Power Pop...Chiediamo sentitamente all'On. Mastella che d'ora in poi tuteli i power-poppers in quanto minoranza...(..oppss , ma forse chiediamo troppo,..il power pop come Weltanschauung assicura uno scarso numero di voti y/o poltrone..immagino ! :))


Che il punk rock ( o similia) sia diventato ormai uno dei fenomeni più “trendy” dal punto di vista mediatico lo sa anche mia nonna che pur è leggermente (leggermente?) rimbambita ed è dai tempi di “Luciano Serra Pilota” con Amedeo Nazzari che non acquista un disco .
I Delicious propongono una sorta di poppetto punk-EMOeggiante ultraplastificato e iperprodotto che dovrebbe ,nelle intenzioni , far breccia nel cuore del pubblico adolescenziale italiano .
In tutto ciò , beninteso, non c’è nulla di male; una delle mie bands preferite di sempre (The MONKEES) nasceva in fondo dagli stessi presupposti “commerciali”.
Il problema, in questo caso specifico , è che qui però manca abbastanza evidentemente, alla band in questione, il senso della scrittura pop .
Le 12 tracks del disco si succedono piuttosto uniformi e monotone senza quasi mai provocare quei sussulti o quei brividi di “jouissance” che solo le alchimie di una pop song ben costruita (sia essa “Echo Beach” di MARTHA & THE MUFFINS, “Summer Fun” dei BARRACUDAS ,”Respectable Street ” degli XTC o ….“Love Boat ” di LITTLE TONY ! ) sanno darti.
La cosa che più mi ha lasciato perplesso è che il sound del gruppo è stato frequentemente definito/etichettato come POWER POP.
Ora: io FORSE di musica non ne so nulla ; avendo una collezione di soli 14.000 dischi (almeno!), alcune centinaia dei quali, guardacaso!, proprio di power pop “storico” e non .
Però, nonostante la mia abissale “ignoranza “, penso di poter affermare con una certa tranquillità e cognizione di causa che: se questo è un disco di power pop io mi chiamo GIAMPIERO GALEA’ e non ho mai magnato un “quarto de bue” in vita mia.

Che certi recensori compiacenti abbiano addirittura accostato i DELICIOUS ai WEEZER (probabilmente solo perché nella foto sul retro cd la band appare attorniata da dischi dei Weezer) è un’ulteriore riprova di quanto pressappochismo e scarsa cultura rock ci siano , purtroppo, in Italia .
A certi presunti esperti consiglierei di ascoltarsi almeno 16 ore al giorno l’opera omnia di BADFINGER , BARRACUDAS , LAST , SOFT BOYS o DOM MARIANI .
Forse allora capiranno il significato di Pop Song … e andranno a scrivere di coito facciale su “Le Ore Trimestrale”.
In definitiva e apertis verbis : non toccatemi il power pop , una delle poche religioni rimastemi , o mi incazzo come l’interista medio quando “ammirava” le sublimi, inarrivabili, inenarrabili prodezze di Aaltonen , Cirillo e Gresko!

Michele” Long Ryders ” Ballerini






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BARI in the 1960s: THE FLOWERS














































































Visto che amo visceralmente la 60's music pubblico con piacere questo "passionate amarcord" directly from the mid 60's Bari town.
Michele B.
by PASQUALE BOFFOLI ( p.boffoli@tiscalinet.it )

INTRO "When I was young..."

Ladies and gentlemen, benvenuti nel sito ‘THE FLOWERS’ del nuovo millennio. Perché questa puntualizzazione?Perché la band / sigla originaria nacque nei primi anni ’60 a Bari.Io, attuale cantante /armonicista / percussionista della band ora rinata a nuova vita, nel 1965 (anno in cui la band stava per formarsi) ero un tredicenne fresco di paese appena giunto (anche se in realtà ci ero nato) con la sua famiglia in una Bari in via di sviluppo ma non ancora soffocante ed assediata dal cemento.
La mia formazione musicale fu davvero tradizionale: il festival di Sanremo, ma anche quello di Napoli. Ricordo che mio padre Raffaele, chitarrista frustrato (suonava intere canzoni su una sola corda…), adorava cantanti dal gorgheggio ‘seriale’ come Sergio Bruni, Maria Paris, Aurelio Fierro, Luciano Tajoli ed io lo accondiscendevo da bravo bimbo.
Ma presto le cose cambiarono: la radio ma soprattutto la televisione portarono nella nostra casa i nuovi asciutti moduli vocali e gli strani testi di Luigi Tenco, Bruno Martino, Sergio Endrigo e mio padre inorridì, andò in tilt !
Ma come? L’enfasi, i gorgheggi, i buoni sentimenti erano finiti !Forse l’unico che riusciva a bypassare la sua diffidenza rocciosa era il pur innovativo Domenico Modugno.
Per me cominciarono ad aprirsi nuovi straordinari orizzonti che travolsero il mio immaginario musicale adolescenziale in espansione: le prime rare apparizioni televisive di Elvis Presley, Rita Pavone, Bobby Solo, Adriano Celentano. Ma anche il primissimo Burt Bacharach, artefice di un nuovo sobrio ma sofisticato romanticismo ‘pop’olare: Burt fece breccia inesorabilmente nella mia fragile psiche di undicenne, sto parlando del 1963.
I miei ricordi sono nitidi, quasi dei flashes: una ‘What the world needs now is love ‘ malinconica e bellissima, dalle avvolgenti spirali armoniche, colonna sonora di una calda estate al mare; naturalmente allora non sapevo si trattasse di Bacharach, era ‘Quando tu vorrai’ di Iva Zanicchi. Una ‘Barbara Ann’, gioioso iridescente caleidoscopio di voci dalla spensierata ‘young California’: l’ascoltai per la prima volta in un Carosello, faceva da colonna sonora alla pubblicità di un dentifricio…; naturalmente ignoravo fossero i Beach Boys .Ma la vera folgorazione furono le primissime apparizioni televisive dei Beatles, ‘ another world…’ letteralmente, ed il cordone ombelicale con mio padre si recise del tutto: She loves you, From me to you, Please Please me, Twist & Shout, zazzeruti, isterici quando cantavano e suonavano il loro mersey-beat primigenio, ironici e sfrontati quando apparivano e parlavano davanti alle telecamere.
Le mie sinapsi cominciarono a funzionare in modo diverso, nello stesso tempo in cui cominciò a farsi serio il problema delle erezioni del mio alter-ego quando ero vicino a Maria, la mia ‘polposa’ vicina di casa alcuni anni più grande di me!
Praticamente la prima donna di cui mi sono perdutamente e fisicamente innamorato a sua insaputa.Il colpo di grazia lo ebbi appena trasferitomi in città.Una mattina io e mio cugino Franco (con lui facevo praticamente coppia fissa) bighellonavamo come al solito per il quartiere Carrassi: ascoltammo provenire dai cavalli in cartapesta di una giostrina in movimento il riff tagliente ed insolente di uno strumento mai udito prima che ci scioccò conficcandosi in testa come un chiodo; un incrocio tra un sax e lo sbuffo di una nave da crociera.
Subito dopo l’effluvio d’inglese di una voce prima lasciva, poi dai toni duri e protestatari. Le parole di quel cantante si attorcigliavano una sull’altra e non ti lasciavano respirare.A produrre quel riff era il fuzz della chitarra di Keith Richards, quel cantante così offensivo era Mick Jagger, il brano era Satisfaction e loro…..loro erano THE ROLLING STONES !

Intervista ai FLOWERS
La mia iniziazione beat e rock continuò poi quando entrai nell’ambiente musicale alternativo barese, che ruotava soprattutto intorno a Piazza Umberto, per tutti coloro che la frequentavano semplicemente ‘il giardino’.
Punto d’incontro di tutti i musicisti, frikkettoni e capelloni della città .
Lì ho conosciuto un sacco di gente; lì parlavamo, vivevamo, mangiavamo, suonavamo le nostre chitarre le nostre armoniche e …..
Ma c’erano anche i cosiddetti ‘locali’, nei quali si riunivano per suonare, filosofeggiare etc… i beats della città : in uno di questi, in via Galiani nel quartiere Carrassi conobbi THE FLOWERS…..ma di tutto ciò che li riguarda è meglio che parlino loro in persona, i protagonisti di quegli impareggiabili anni : Ciro Neglia, Donato Catacchio, Ninni Pirris, oggi cinquantenni pimpanti che imbracciano ancora chitarre e diffondono il verbo rock .


Una domanda scontata ma doverosa: perché in quei lontani anni adottaste questo nome?
Ciro: Allora eravamo considerati scapestrati e ‘giovinastri’ dalla gente per i nostri capelli lunghi e per i blue-jeans sdruciti che indossavamo. Chissà come a noi venne l’idea di un bel mazzo di fiori…..un bel mazzo di giovinastri! per cui ci venne spontaneo chiamarci ‘THE FLOWERS’, anche immedesimandoci nell’ideologia pacifista che proveniva d’oltreoceano.


In quale anno vi formaste e qual’era la vostra età media ?
Donato: Nel 1966, la nostra età media era 20 anni ed eravamo senza un cantante!!!
L’esigenza di un cantante ci spinse a cercarlo ed una sera capitammo in un club di via Q.Sella, il MiniPiper, dove ascoltammo cantare con un altro gruppo, rimanendone colpiti, Liborio Martorana, che contattammo. Dal giorno seguente, dopo una sua breve ma giustificata indecisione, era il nostro cantante.


Cosa vi spinse a formare la band ?
Donato: L’esigenza di uscire da un certo conformismo. Chiaro che Beatles, Rolling Stones ma ancor prima Elvis Presley, Shadows furono un fortissimo deterrente….
Ciro : Sì, fu una forma di ribellione a tutto ciò che ci circondava e che non ci piaceva.

The Flowers era una sigla che andava oltre la band vero? Io in quegli anni vi frequentavo….
Donato: Sì, i Flowers erano un ambiente aperto fatto di personaggi che giravano attorno alla band. Era una sorta di laboratorio intellettuale oltre che musicale nel quale si discuteva e ci si confrontava.


Voi eravate una cover-band come il 90 % dei gruppi baresi (ma anche nazionali) di quegli anni.
Ricordate i vostri cavalli di battaglia?
Donato: Mercy Mercy degli Stones, Hey Joe fatta alla maniera dei Byrds o psichedelico/orientaleggiante alla Shadows of Knight era il nostro pezzo forte, ed ancora When I Was Young degli Animals, Gloria e Dark Side degli Shadows of Knight, e Satisfaction .
La matrice nera poi per noi più di altri gruppi locali fu importante, il blues ed il r&b, a partire da Memphis Slim, Otis Spann, Ray Charles sino a Wilson Pickett: non a caso i Rolling Stones, che della ‘lezione’ nera erano impregnati sino al midollo erano il nostro gruppo preferito.
Ciro: Vorrei aggiungere che eravamo sì una cover-band ma ci distinguevamo dal 99 % delle cover-bands baresi che eseguivano pedissequamente un brano tale e quale all’originale. Noi improvvisavamo, anche in concerti ufficiali, partendo dallo schema principale senza risparmiarci, per cui il brano si sapeva quando iniziava ma non quando sarebbe finito. In questo eravamo davvero unici. Scrivilo!


Avevate rapporti con altri gruppi e famiglie beat baresi, o tra voi c’era rivalità?
Ninni: Premetto che io provenivo dalla Bari ‘bene’ e che fui accettato, all’inizio con un po’ di diffidenza nel gruppo “Flowers” tramite Ciro, conosciuto tra i banchi dell’istituto “Panetti” ….acerbi studenti ma già con tanta voglia di Stones!
Dai Flowers sono stato letteralmente ‘svezzato’ sia musicalmente che intellettualmente.
Che io ricordi (ma forse mento spudoratamente) non c’erano rivalità con altre bands, anzi spesso si andava a fare concerti insieme e noi da gruppo-spalla spesso diventavamo i veri protagonisti della serata. Uno spirito di rivalità avrebbe significato andare contro la filosofia dei Flowers!

Donato: Rivalità no, ma una certa concorrenza c’era, come in tutte le comunità. Ricordo ad esempio quella con Lino Rossini & The Hawks, Dragoni, The Bears, , The Roads etc…
Ciro: Sì, tra l’altro io con Rossini avevo suonato la batteria negli Hawks, insieme a Piero Maremonti al basso, oggi un pediatra affermato. Suonavamo soprattutto materiale degli Shadows, si era nel 1964/65. Ma durammo poco.
Rossini confluì nei Dragoni di Franco Florio, io formai con Ninni Donato e Nico “The Flowers”.

Qual’era il gruppo che apprezzavate di più ?
Donato: Certamente The Bears, che ci ospitavano per lunghe jam-sessions insieme il sabato e la domenica sera nel loro locale in via Q.Sella, accanto al MiniPiper. The Bears erano specializzati nel repertorio degli Yardbirds (… ma anche Traffic, Cream e Blind Faith aggiunge il sottoscritto essendo stato presente a qualcuna di quelle magiche serate !) .
The Bears erano Mimmo Bucci alla chitarra solista, Piero Matarrese alla voce, Duccio e poi Robertino Emiliano alla batteria, Vito Alloggio detto Scarano ed in seguito Micky Ruta al basso.
Ciro: Poi c’erano The Blackbirds con Nino Losito alla chitarra Pino di Giulio al basso Nunzio ‘Cucciolo’ Favia, un batterista fenomenale (forse all’epoca il più virtuoso del reame!) che in seguito emigrò suonando con gli Osage Tribe, Trip, Dik Dik e Franco Simone, e non so con chi altro, che eseguivano materiale straniero, I Diavoli Rossi con Gino Giangregorio alla chitarra e Antonio De robertis alla batteria che suonavano Kinks e Stones e tra i nostri ‘avversari’ The Roads con Matteo ‘Spaghetto’ Pesce alla batteria che idolatravano i R.Stones come noi. The Jaguars invece erano i nostri fratelli maggiori, e spesso andavamo a sentirli alla Sala Arezzo nel quartiere Carrassi; eseguivano materiale commerciale ma anche Beatles etc…
Donato: Fecero più da modello ai Diavoli Rossi !

Quali bands invece non rientravano nei vostri gusti ?
Ciro: Quelli più commerciali come I Lampi, che eseguivano una sorta di r&b/soul italiano e
The Crickets anche loro commerciali ma ricordo bravi
.

Ed i famosi Hugu Tugu, li conoscevate?
Ninni: Io andai a sentirli e rimasi di stucco; ero molto giovane e loro parecchio più grandi di me. Stiamo parlando del ‘65/’66. Facevano molto commerciale, ma anche Beatles e materiale straniero, da Piccola Katty a Ticket to ride . Gli Hugu Tugu erano Paolo Lepore alla batteria, Franco Sciannimanico alla chitarra solista, Gianni Giannotti alla chitarra ritmica, Ilario in seguito Emiliano al basso e Cesare DeNapoli alla voce. Tecnicamente erano molto dotati, hanno anche inciso, ma hanno ritenuto di rimanere in ambito commerciale.
Donato: Parteciparono anche al Cantagiro, firmarono un contratto con la RCA ed io ricordo una loro bella versione italiana di Somebody To Love dei J.Airplane su 45 giri.
The Flowers invece non hanno mai varcato i confini della Puglia, né inciso vero?
Ciro: modestamente
!

Quali vostri concerti ricordate maggiormente ?
Ciro: Ricordo un festival rock a Triggiano, al cineteatro Lombardi con ospiti I Camaleonti…che ci elogiarono!!! (Ma non ci portarono con loro)! Poi ricordo le nostre imprese al MiniPiper, al Big-Clan, al Sidereo Club di Palese, dei veglioni per i ragazzi dell’istituto Scacchi e al Fagiolo di Carbonara, dove suonarono tra gli altri anche I Primitives di Mal. Il Fagiolo era un locale ‘in’ che ospitava anche gruppi importanti e stranieri.

Intorno alla band THE FLOWERS giravano altri personaggi anche bizzarri. Quali ricordate aver interagito con voi musicalmente o solo dal punto di vista esistenziale?
Ninni: Certamente Epaminonda Nikasis, un ragazzo greco che si presentò una sera come un’apparizione e mi (ci) sconvolse perché suonava la chitarra tirando le corde ed alterando le note mentre noi eravamo abituati a suonare come gli Shadows, a corde libere e pizzicandole semplicemente.
Praticamente ci insegnò a suonare la chitarra ed i riffs come Chuck Berry e Keith Richards. Per me fu uno stravolgimento totale.

Ciro: Tanto è vero che oltre a suonare con noi per un certo tempo, suonò anche come ospite nei Flowers Three, una formazione parallela con me, alla batteria Franco Catacchio alla chitarra e Franco Sabino al basso.
Poi tra i soggetti pittoreschi che ruotavano intorno a noi c’erano Fracco ‘ il pittore’, ‘Cavallo Pazzo’ fan sfegatato di Frank Zappa, il lungo Alessio detto “Alè” Dino Panza, Pasquale Adesso detto “Packy” grande estimatore di Fabrizio DeAndrè ed altri individui che transitavano occasionalmente nei locali di via Galiani, quello più importante, via Gabrieli, via Fornelli, tutti nel quartiere Carrassi.

Pasquale Boffoli : Permettimi però Ciro a questo punto di citare anche tuo fratello (nonché mio cugino) Franco ‘Sgallett’ Neglia, armonicista sopraffino, membro occulto dei Flowers. E’ stato lui che mi ha iniziato all’armonica. Sorta di introverso e carismatico guru beat, coerente sino all’autolesionismo con la sua ideologia di girovago, tra Grecia e Francia, Olanda ed India. Fu lui anche ad introdurmi agli aromi forti ed alle spirali psichedeliche di dischi come Between The Buttons, Are You Experienced, Blonde on Blonde. A lui devo molto della mia formazione musicale rock basica.

In definitiva gli anni ’60 per i Flowers cosa hanno rappresentato?
Donato: Uscita dall’autoritarismo, dalla mentalità autoritaria nel senso più lato del termine.
Ciro: Ed anche un’identificazione con l’ideologia di sinistra pur se anarcoide e "capellonesca". Solo Nico Salvemini tra noi era inquadrato nel partito comunista a tutti gli effetti, per noi invece si è trattato principalmente di ribellione esistenziale, un mettersi alla prova sperimentando percorsi (non solo a livello di viaggi) alternativi a quelli che all’epoca venivano riconosciuti come tradizionali e sacrosanti.

Che senso ha resuscitare la sigla THE FLOWERS nel nuovo millennio alla luce di quanto detto sinora?
Ciro: Prima di tutto ribadire, a 40 anni di distanza, la bontà di certi valori musicali e soprattutto umani: il fatto di ritrovarsi con alcuni compagni di allora, il piacere di suonare e di stare insieme, verificando i rispettivi percorsi musicali mettendosi in discussione artisticamente e non solo.
Poi THE FLOWERS, approntando un aspetto didattico molto importante, attraverso il LARGE SOUL PROJECT si propongono di preservare la memoria di 50 anni di rock e di tutto quello che hanno immagazzinato in essi per riproporlo alle vecchie e nuove generazioni.
E non è poco.

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